Volevamo intitolare questa rubrica "Cervelli in fuga", ma i nostri sono ragazzi che non se ne sono andati per necessità, ma per fare esperienza di lavoro in America

Alessandro Colnago, Vice President di ExportUSA, ha lasciato l'Italia per trasferirsi e lavorare a New York, dove vive da più di quattro anni: in questa intervista racconta il suo percorso da studente dell'Università Bocconi a Vice Presidente di ExportUSA
 

Dopo lo scambio/Erasmus a Singapore, in India e la laurea in Bocconi, hai subito pensato di andare a lavorare all’estero?

È vero quello che dicono, viaggiare ti apre la mente, e so per esperienza che una volta aperta è difficile richiuderla e contenerla nella routine a cui era abituata.
Durante il percorso accademico ho avuto la possibilità di approfondire la mia educazione in contesti culturali totalmente diversi da quello a cui ero abituato; Shanghai, Singapore, Nuova Delhi sono realtà che cambiano il tuo modo di pensare, rapportarti alle persone e di fare business.

Viaggiare e lavorare all’estero è piacevolmente intossicante. Per me lavorare fuori dall’Italia è stata una naturale evoluzione – con buona pace della mamma - anche perché dal primo giorno di università la parola d’ordine è prepararsi ad un mercato globale, dove ormai i datori di lavoro si aspettano conoscenza di più lingue, flessibilità di movimento e negoziazione interculturale.

Non sento particolarmente mancanza di casa perché torno in Italia di frequente. Forse quello che mi manca di più è lo stile di vita Italiano, che non ci si rende conto di perdere fino a quando non si lascia la patria. Le cose che noto quando torno sono alla fine quelle che fanno innamorare del nostro paese i turisti e che fanno del Made in Italy non solo una garanzia di qualità ma un vero e proprio stile di vita: la passione per l’estetica, l’arte e la storia di cui siamo quasi inconsapevolmente circondati, la ricchezza naturale e la biodiversità che ritroviamo nella cucina e nel territorio e le decine di tradizioni locali che rendono ogni regione e città speciali a modo loro.


Perché hai scelto una professione fuori dall’Italia?

Sono anni che in Italia si parla di cervelli in fuga, io non sono uno di quelli che non ha avuto la possibilità di lavorare o è stato costretto a ripiegare su professioni per cui non aveva studiato.

I motivi che mi hanno spinto ad andarmene sono altri, un pò personali e un pò lavorativi.
Lavorare in consulenza manageriale in Italia significa per la maggior parte avere come clienti banche e gruppi assicurativi, cosa che non mi interessava tanto quanto aiutare le aziende di tanti settori, dal food alla moda, dal design alla meccanica, di tutte le dimensioni, a fare lo stesso passo che in un certo senso avevo compiuto io, cioè quello di cercare una nuova fonte di crescita negli Stati Uniti.


Probabilmente, in Italia non avresti raggiunto una posizione manageriale così importante alla tua età, mentre in USA è una cosa più usuale se hai le capacità e le carte in regola.

Il lavoro è complesso ma anche tanto stimolante: quando un imprenditore si affaccia al mercato americano, è un po’ come se ripartisse da zero, condividiamo insieme paure, speranze e successi che fanno di questo percorso un’azione strategica ed emotiva molto importante.

Essere a fianco di un’azienda in quel momento porta ad imparare tantissimo dell’essenza di un brand e della sua ragion d’essere, e allo stesso tempo porta tante responsabilità.
 

Quanto influisce il fatto di vivere a New York sulle opportunità e il networking? 

New York è una città che rapisce per la sua energia.
Ho vissuto in tante città di diversi continenti e poche rivaleggiano New York per l’ispirazione che offre a così tanti tipi di persone, di passioni, di professioni. Gli abitanti di New York si nutrono di networking come le foglie si nutrono d’acqua, le occasioni per conoscere persone sono innumerevoli tant’è che fare networking diventa quasi un secondo lavoro! Ma spesso è cosi che si creano affari e, perché no, anche amicizie.


Secondo te ci sono differenze tra Italia e Stati Uniti nel mondo del lavoro? ci sono pregiudizi verso chi è giovane?

Sicuramente ce ne sono e in parte è anche giusto che sia così, in Italia forse il pregiudizio verso i giovani si sente di più, l’anzianità prima di tutto è ancora sinonimo di esperienza.
Negli Stati Uniti e specialmente nei settori più tecnologici, gli equilibri si sbilanciano: ci sono meno formalità, a partire dai toni usati in colloqui e negoziazioni, meno fronzoli nel dress code e tanti, tanti esempi di giovani imprenditori che si guadagnano il rispetto anche dei più canuti capitani di industria.


Che consigli daresti ad un giovane neo-laureato che vuole andare a lavorare all’estero e soprattutto a NY?

Essere proattivo e prendere atto che da italiani si parte con una cultura generale maggiore rispetto agli americani ma anche con meno esperienza pratica di lavoro e specializzazione.
Fare un bilancio delle proprie capacità e usare le risorse che abbiamo ormai facilmente a disposizione per costruire al meglio il proprio branding e trovare opportunità. 

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