L'impreditore ristoratore Rosario Procino, napoletano doc e newyorchese d’adozione,  co-fondatore della catena di ristoranti-pizzeria di New York Ribalta, svela i segreti del suo successo in America

Né una semplice pizzeria, né soltanto un ristorante, Ribalta è diventata infatti la piazza degli italiani e la sede del Napoli Fan Club a New York

Senza per questo tralasciare l’eccellenza del prodotto: nominata migliore pizza di New York dal Time Out ed eletta miglior pizzeria italiana d’America nella guida del Gambero Rosso (quella dedicata ai migliori ristoranti italiani nel mondo). Dopo aver replicato il successo di Ribalta anche ad Atlanta, Rosario si è lanciato in una nuova avventura per dare vita a un nuovo format, “Ribalta Mo”: una pizzeria cosiddetta “fine casual”, che si inserisce perfettamente nel rinnovato Food Hall del Madison Square Garden. Per chi non lo conoscesse il Madison Square Garden è considerato il tempio dello sport e della musica, un complesso urbano situato al di sopra della stazione Penn Station, sulla 32esima strada, tra la 7ª e l’8ª avenue di Manhattan, punto di snodo della città, che vede passare circa 900 mila persone in media al giorno.

 

Come sei arrivato in America?

Arrivai a New York nel ‘99 lavorando per Telecom Italia come ingegnere delle Telecomunicazioni. Lavoro che lasciai nel 2003 per andare a gestire Barilla negli Stati Uniti, pur di entrare a pianta stabile in America. Poi ho sentito forte l’esigenza di creare qualcosa di mio, perché se non lo fai a New York dove lo fai?

E anche perché mi mancava la pizza, la vera pizza napoletana, perché qui ancora non esisteva. In Barilla ho avuto l’opportunità di studiare il mondo della ristorazione per capirne i movimenti, le regole che devi conoscere se vuoi affrontare questo mercato, finché nel 2008 mi sono buttato in questo primo esperimento.

Com’era il mercato della pizza allora in America e com’è oggi?

Mi sento di poter dire che sono stato un pioniere nel portare la vera pizza napoletana in America. Nel senso che anche se già c’era chi faceva la pizza napoletana intorno a fine anni ‘90, inizi 2000, erano ancora situazioni sporadiche. E soprattutto era stato compiuto un riadattamento per avvicinarla alla pizza in stile americano. Quando nel 2008 ho aperto la mia prima pizzeria, Kestè, ho creato una sorta di rivoluzione della pizza in America: una pizzeria napoletana autentica che ha fatto da apripista a un movimento di pizzerie napoletane, che ora si sono diffuse non solo a New York, ma in tutti gli Stati Uniti.

Qual è secondo te la componente necessaria, all’inizio, per arrivare al successo?

In 15 anni di lavoro nel settore food ho visto persino chef stellati cadere, perché sono venuti qui con l’arroganza di pensare che essere italiano vuol dire necessariamente saperne di più di un americano. La convinzione che in America non capiscono nulla di cibo e allora “vi insegno io come si fa”, li ha portati a fallire. La prima regola, e vale per tutti, è che il sistema di lavoro americano è completamente diverso da quello italiano: il servizio, il modo di porsi verso il cliente, il modo di promuovere il locale.

È veramente un altro mondo rispetto all’Italia, perciò è fondamentale capirne le dinamiche e rispettarle, anche quando si tratta di cose inconcepibili per un italiano, ma che qui hanno una loro logica. Se vuoi avere successo in America devi metterti in gioco e in un certo senso ripartire da zero, ma soprattutto devi sapere come funziona questo mercato. Consiglierei di affidarsi a una società di consulenza e non buttarsi alla cieca. In questi anni ho visto tante persone dire: “Ma sì, la pizzeria, prendo un pizzaiolo bravo e apro” e invece non funziona così.

E come funziona una pizzeria di successo in America?

Per me è stato fondamentale curare fin da subito il discorso delle PR e della stampa di settore, che se in Italia ha preso piede da qualche anno, qui in America è valido da sempre. Intendo la comunicazione tramite la televisione, i miti degli chef famosi e del pubblico sempre più informato tramite i blog, i tutorial, la stampa di settore, le recensioni. Ricordo agli inizi nel ’99, quando ancora non c’era internet, in ufficio (e quindi nel mondo corporate) l’americano aspettava la review del mercoledì del New York Times per sapere dove andare a mangiare quella settimana.

In una città come New York, c’è una fortissima attenzione verso la stampa, che in un certo senso ha il potere di crearti o ti distruggerti. Tradotto in termini pratici se il locale andrà bene o male lo sai presto, già nell’arco di 5 mesi sai se funzionerà. Per questo è così importante attirare fin da subito l’attenzione della stampa.

Alla mia prima esperienza nel 2008, quando ero ancora nuovo alla ristorazione in America, con un locale di 40 posti a sedere, la sera dell’inaugurazione facemmo già 420 coperti. E questo fu possibile solo grazie alle aspettative create dalla stampa.

È da allora che la pizza napoletana si distingue dalle altre in America, tanto che ormai è conosciuta da tutti. Può piacere oppure no, ma di sicuro oggi negli Stati Uniti c’è un grande fermento intorno a questo prodotto. In sintesi qui non basta saper fare una cosa, bisogna saperla comunicare.

Il primo step da superare è proprio quello di far entrare le persone nel locale. E sicuramente non basta più dire “faccio la pizza come la faceva mio nonno”, perché è una storia sentita e risentita e non fa più leva sulla curiosità della gente qui in America.

Ma una volta che i clienti sono entrati c’è il secondo step, farli tornare in questo mare di competizione. Qual è la tua carta vincente?

Innanzitutto la qualità del prodotto, mangiare bene deve essere sempre la base.

La qualità degli ingredienti per esempio, alcuni li importiamo direttamente dall’Italia, come i "Pomodorini del piennolo del Vesuvio", la mozzarella campana, la miscela di farine per pizza certificata del molino italiano “Le 5 Stagioni”. Per quanto riguarda la preparazione della pizza segue la ricetta classica napoletana, con la lievitazione naturale di 36 ore, che risulta molto più digeribile.

Un altro segreto per lavorare bene in America è garantire la costanza del prodotto. Quando una cosa piace, buona o cattiva che sia, l’importante è continuare sempre sulla stessa linea.

 

E portare la propria italianità in America, non solo dal punto di vista della cucina, ma anche della propria cultura. Tanti italiani in passato hanno fatto ristorazione adattandosi al gusto americano per non contraddire il cliente. Noi nel nostro “integralismo” imponiamo quella che è la vera cucina, ma lo facciamo naturalmente in un modo educativo.

Un quinto della popolazione newyorchese è di origine italiana, tantissimi!

E tanti degli italiani residenti a New York sono quelli di ultima generazione, che oggi sono orgogliosi delle loro radici e vanno fieri della loro italianità. Non più come gli italiani immigrati 60/ 70 anni fa, che si nascondevano al fine di integrarsi nella comunità americana, talvolta non parlando neanche in italiano ai loro figli. Allora davvero arrivavano con la valigia di cartone a lavorare duramente.  Ed è sicuramente anche grazie ai loro sacrifici che gli italiani oggi vengono qui a testa alta, ammirati dai newyorchesi per tutto ciò che rappresenta l’Italian style.

Quindi i segreti per avere successo sono avere un buon prodotto, rigorosamente italiano, e crearsi una storia per differenziarsi dagli altri.

Esatto, quando ho aperto Kesté nel 2008 ho potuto raccontare la storia della pizza napoletana perché ancora non c’era. Quando ho aperto Ribalta, invece, ho creato una formula diversa, perché la pizza napoletana ormai era già famosa e aprire un’altra pizzeria napoletana non avrebbe suscitato chissà quale interesse.

E come ti sei differenziato dalle altre pizzerie con Ribalta?

Ribalta, nata anche lei sotto il segno della comunicazione, ha più di una carta vincente: hariscosso successo a New York grazie al “bar dello sport” e la musica anni ’80, che in Italia non vanno più, mentre qui hanno rappresentato un’assoluta novità.

Il calcio è decisamente una cosa da italiani e quando abbiamo deciso di dare spazio al calcio ancora non lo faceva nessuno a New York. Poi con l’effetto emulazione oggi lo fa chiunque. Noi abbiamo fondato il fan club del Napoli e ora si stanno sviluppando i fan club di tutte le squadre d’Italia a New York.
 

Un’altra attività a effetto aggregante è la musica, in particolare la musica dal vivo.A Ribalta dopo l’ultimo servizio del ristorante vengono spostati i tavoli centrali e il locale diventa una pista da ballo. Io la chiamo operazione nostalgia, ma di fatto funziona, perché ci riporta alla nostra italianità e ci fa sentire a casa. Per gli americani invece è ancora una volta la novità, perché qui si usa molto andare nei locali jazz, ma è difficile trovare un locale americano dove si salta sui tavoli e si balla. Quindi all’inizio arrivano incuriositi, poi si lasciano coinvolgere e si divertono. E infatti ora nel repertorio abbiamo anche musica americana.

Ribalta ormai rappresenta l’equivalente della piazza italiana a New York, ed esattamente a Union Square, cuore pulsante della città. La sera dopo il lavoro si incontrano qui, non solo quando vengono a mangiare, ma anche per bere una birra e fare due chiacchiere, o come punto di ritrovo per andare a mangiare da un’altra parte.

 

E invece degli americani cosa mi dici, ti piace lavorare con loro?

New York chiaramente è una piazza diversa rispetto al resto d’America, però comunque l’americano vuole imparare, ed è proprio quello il bello e la soddisfazione, che vuole capire e vuole essere educato: sui piatti, sui vini, su tutto. E questo è anche un modo per fidelizzarli.

 

Si dice che un ristorante a Manhattan non possa non avere sul menù alcuni piatti familiari agli americani, ad esempio i calamari fritti. Quali sono a tuo avviso dei piatti che è bene avere nel proprio menù?

Per incontrare il gusto degli americani noi offriamo una vasta gamma di insalate ad esempio. In un ristorante italiano è più difficile trovarne così tante sul menù. Oppure il pollo, che solitamente in Italia lo si cucina di più a casa, qui va molto. I piatti tipici dei ristoranti italo americani sono gli spaghetti con le polpette, o le fetuccine Alfredo. Il calamaro fritto lo chiedono, ma noi ci differenziamo perché al posto della salsa marinara con cui vengono accompagnati di solito, noi serviamo una crema a base di basilico. E quindi di nuovo educhiamo i nostri clienti a quelli che sono i nostri piatti. Non c’è nulla di ambiguo, tutto italiano, al massimo napoletano: i polipetti alla Luciana, le crocchette di patate, la pasta alla genovese (una pasta tipica napoletana che è un ragù di cipolle), il ragù napoletano. Anche se nasciamo come pizzeria, abbiamo un menù di tutto rispetto.

 

Recentemente hai aperto una pizzeria cambiando totalmente format e inserendoti nelle nuove mecche del food di tendenza, i Food Hall, e niente meno che al Madison Square Garden.


Sì, stiamo sviluppando la nostra crescita attraverso dei locali più replicabili, piccoli e veloci, ma sempre legati alla pizza. Il Food Hall rappresenta la vera novità a New York, nel senso che l’America non è più solo “fast junk food”, ma sta entrando sempre più in voga la formula “fine fast casual”: cibo di alta qualità, con servizio indipendente e veloce, a prezzi contenuti. I Food Hall sono una nuova realtà nella ristorazione americana e sono già considerati i nuovi salotti dei millenials.

Al suo interno vengono ammesse solo le eccellenze culinarie provenienti da tutto il mondo, selezionate in modo da apportare una varietà gastronomica ai clienti, che possono cimentarsi in una sorta di tour gastronomico globale. Come recita il claim di questo Food Hall - The Pennsy NYC - "vengono offerte tutte le opzioni eno-gastronomiche gourmet che si possano desiderare, in un’unica location; per soddisfare le esigenze di vegani, onnivori, pescetariani, ciliaci, ecc". Noi siamo l’unica pizzeria e gli unici italiani all’interno di questo paradiso dei foodies e dell’intrattenimento, e la richiesta è partita non da noi, ma dagli organizzatori della struttura. Il Madison Square Garden poi è veramente un sogno che si avvera.

Qual è il prossimo?

Aprire una catena di punti vendita veloci e sperare poi di venderli tra 10 anni e andarmene a vivere su un’isola. Un sogno abbastanza condiviso direi.

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