Newyorchese d’adozione e romagnola di nascita, Giulia Pelliccioni in quasi 10 anni di permanenza nella Grande Mela, ha già aperto 3 ristoranti di successo a soli 30 anni (appena compiuti)

Partita con l’idea di fare una semplice vacanza per visitare degli amici a New York, si innamora della città e dopo gli studi a Milano, dove si specializza in Lingue e Comunicazione, decide di trasferirsi in America. Per mantenersi comincia a lavorare nella ristorazione, un ambiente lavorativo già nelle sue corde, abituata a collaborare nel ristorante di famiglia nella rinomata località balneare di Riccione.

Noi di ExportUSA siamo andati a trovare Giulia a Brooklyn, nell’ultimo ristorante aperto al numero 387 di Myrtle Avenue - La Rina Pastificio e Vino. Un ristorante (oltre che pasta-shop) focalizzato principalmente sulla pasta “home-made”, che gestisce insieme all’amica Silvia Barban - chef “under 30”, già nota al pubblico dei foodies per la sua partecipazione a Top Chef America

Hai abbandonato il mondo della comunicazione per tornare sulle orme di famiglia e occuparti di ristorazione. Quindi a Riccione no, a New York sì, perchè?

Diciamo che quando ho conosciuto il mio attuale socio lavorando al suo ristorante, mi sono appassionata subito e ho imparato tantissimo. In famiglia in realtà mi occupavo di cose marginali, facevo la cameriera o stavo alla cassa. Sicuramente dalla Romagna ho portato lo spirito imprenditoriale e la modalità di accoglienza, che è un po’ parte della mia cultura. Penso che gli italiani, ancor di più noi romagnoli, ce l’abbiamo un po’ innato questo approccio alla clientela e gli americani lo apprezzano tantissimo, forse perchè in loro non è così spontaneo. E credo di aver applicato anche una parte dei miei studi alla ristorazione, perchè nel ristorante organizzavo eventi ed è anche grazie a questo che è cresciuto molto nei 4 anni in cui ho lavorato lì. Poi sono diventata socia e il passo successivo è stato quello di investire qui, anche grazie all’aiuto di famiglia, che mi ha appogiato in questa scelta.

La più grande difficoltà che hai avuto ad aprire un ristorante a New York?

Il mio socio aveva già aperto altri ristoranti e grazie alla sua esperienza non è stato difficile mettermi in regola con tutto e cominciare questa nuova avventura. Probabilmente i tempi erano diversi e sono stata fortunata, perchè spesso ascolto le difficoltà che incontrano altri colleghi italiani ad aprire, anche se in realtà penso sia solo una questione di “non sapere”. Quello che dico sempre a chi vorrebbe aprire subito qualcosa qui, è che avere avuto esperienza o successo in Italia non determina lo stesso successo qui, perchè il mercato è diverso e bisogna conoscerlo e in un certo senso ripartire da zero, oppure affidarsi a chi lo conosce.

Quindi lavorare in USA non è la stessa cosa rispetto all’Italia. Perchè?

Nel senso che bisogna mettere da una parte l’esperienza di come si lavora in Italia e capire quali sono le dinamiche trainanti del business del food in America. Non si può pensare che se in Italia una cosa funziona allora funzionerà anche qua. O che si lavorerà nello stesso modo, perchè l’approccio è totalmente diverso. Né il prodotto che dai, nè come gestisci, nè come apri, nè i soldi che spendi. Non è veramente possibile fare paragoni. Se l’imprenditore non vuole chiedere una consulenza, che a mio avviso dovrebbe essere il primo passo per capire come funziona il lavoro a New York, allora dovrebbe avere l’umiltà di lavorare un po’ per qualcun altro, per rendersi conto delle differenze. Io posso dire di aver imparato proprio dalla gavetta che ho fatto qua.

Fammi un esempio di queste differenze.

Il primo esempio che mi viene in mente è a livello di prodotto: la porzione di pasta di 120 grammi anzichè di 80. Anche perchè è la prima cosa che mi fanno notare i miei genitori quando mi vengono a trovare. Ma se poi riduco le porzioni corro il rischio di ricevere mail o recensioni negative, perchè succede.

Gli americani sono abituati a uscire da un locale soddisfatti della loro esperienza e se non gli piace un piatto di pasta o un bicchiere di vino ad esempio lo rimandano indietro, e si aspettano di non pagarlo o che gli venga sostituito con un altro. Un concetto impensabile in Italia, a meno che non sia proprio una cosa palesemente immangiabile, perchè scotta o salata ad esempio. Qui accade solo perchè “non ti piace” ed è un atteggiamento culturale, perciò l’80 % dei ristoratori non lo fa pagare. Noi lavoriamo soprattutto con la gente di quartiere, quindi è fondamentale conoscere questi aspetti.

Lavorando con americani, anzi, “brooklyniani”, quali sono secondo te invece gli aspetti positivi, rispetto al lavoro con gli italiani.

Ti ringrazio della domanda, perchè non vorrei essere fraintesa: anche se sono fiera della mia italianità, io adoro lavorare con gli americani. Qui mi sono sentita subito a mio agio, perchè mi diverto. Gli americani sono sempre positivi, curiosi, hanno sempre una battuta per tutto. E dal lato opposto noi italiani esercitiamo quel fascino che deriva dall’avere una cultura che loro non hanno. Piace persino il nostro accento italiano agli americani, e in generale il nostro modo di fare. La nostra chef, ad esempio, esce spesso dalla cucina ad intrattenere i clienti. Il fatto di porsi sempre col sorriso e aperta alle loro domande crea un rapporto con il cliente. L’obiettivo era proprio quello di creare un ambiente caldo e familiare.

Ho fatto tanti sacrifici, ma questo è il terzo ristorante che apro, e se funziona come stanno funzionanado Aita e Aita trattoria, che sono sempre pieni, ne è valsa sicuramente la pena. Se lavori bene a New York puoi riempire il locale ogni sera, perchè il giro di gente non manca. Non credo che oggigiorno questa sia la regola in Italia purtroppo.

Che idea ti sei fatta del business qui?

Credo che ci siano due modi di fare ristorazione in America: o hai la tua idea chiara già in partenza, e siccome ci credi, vuoi sviluppare un determinato concetto e ti studi dove potrebbe funzionare; oppure segui le tendenze. Perchè a New York tanto gira intorno ai trend, anche a discapito della qualità del cibo. È vero che gli americani stanno cominciando a capire sempre di più cosa signichi mangiare bene, ma ancora non basta. Qui purtroppo non basta.

Cosa intendi per trend?

Ma qualsiasi cosa. Anche che il locale prenda un buon giro di giovani ad esempio, perchè il bar è fatto in un certo modo. Nel senso che anche uno studio appropriato del design fa la differenza. L’arredamento, le scelte stilistiche, tutto ciò che crea un’atmosfera e dà personalità al tuo locale e ti rende unico nel tuo genere.

Quello che ho capito io è che per avere un posto di successo qui in America devi riuscire a spiegare il tuo ristorante in poche parole. Quando mi chiedono che tipo di ristorante è La Rina Pastificio e Vino, io posso rispondere che è un pastificio, quindi principalmente siamo specializzati nella pasta. Se inizi a dire: moderno, americano, fusion, però facciamo anche “seasonal”, quello e quell’altro… non premia. Perchè un americano comincia a chiedersi: “quindi che cosa fai?”. Perchè loro si perdono se uno non ha un concetto chiaro di che cosa fa, un’identità ben definita. La sintesi e l’essere diretti premia in questo Paese, e questo è un fatto culturale di cui si viene a conoscenza solo vivendo qui.

Poi è ovvio che il nostro menu si compone anche di qualche piatto di pesce e di carne e qualche insalata per chi magari non ama la pasta in un gruppo di persone, ma è una scelta marginale nel menù.

Cosa c’è di italiano e cosa c’è di riadattamento americano nella tua cucina?

Silvia, la nostra chef, è giovanissima ed essendo venuta qui prestissimo si diverte a sperimentare. Perciò il nostro menú non è prettamente italiano, perchè questa non è una nostra prerogativa. È vero che la cucina italiana piace all’americano, ma è anche vero che i gusti degli americani si stanno evolvendo. Nel senso che fino a 10 anni fa poteva bastare aprire il ristorantino italiano che sul menu offriva ravioli o la classica pasta di buona qualità. Oggi invece ci sono mille tipi di pasta, gli americani sono informatissimi e a volte io stessa non so cosa rispondere a certe domande che mi vengono rivolte.

La cosa divertente del nostro menu qui a La Rina e Pastificio, oltre al fatto che la pasta è di nostra produzione (abbiamo una macchina italiana) è che ci divertiamo a giocare con colori diversi per sapori diversi: la pasta al limone, di seppia, al peperoncino, al pepe nero, che abbiniamo a salse diverse. Gli americani ad esempio impazziscono per il ragù. E quindi oltre al ragù classico abbiamo voluto proporre anche altre variazioni, come il ragù di anatra bianco o quello al cinghiale.

Abbiamo anche adattato alcuni piatti, come ad esempio il ramen: un accostamento di tagliatelle in brodo di pollo, verdure, e uovo in camicia. È sempre un piatto italiano, ma basato sugli ingredienti locali.

In che direzione stanno andando secondo te gli americani in termini di gusti?

Oltre all’americano medio, che identifica la pasta italiana con le “fetuccine Alfredo”, ci sono moltissimi americani che conoscono bene la cucina, perchè guardano programmi, leggono, cucinano. Ci sono americani che addirittura aprono ristoranti italiani. Un esempio su tutti Lilia, la chef americana che ha vinto il titolo di migliore chef dell’anno. Lei lavorava a Spiaggia, un ristorante stellato a Chicago, ed è venuta a Brooklyn ad aprire il suo ristorante con specialità pasta: Missy Robbins. Per prenotare c’è un’attesa lunghissima. E poi guardi le recensioni e leggi commenti come: “amazing” “awesome”, che magari si riferiscono a una porzione di pasta piccolissima di aglio e olio, e che sono disposti a pagare 25$. E come lei potrei farti altri esempi di altri chef americani, che lavorano in ristoranti americani, con un menu prettamente italiano, e so per certo non sono neppure mai stati in Italia.

In generale cosa ne pensi dell’influenza delle recensioni e dei media in America?

Posso dire che è un altro elemento che fa la differenza, se penso a tutti i clienti che sono arrivati dalla notorietà di Silvia, dopo la sua partecipazione a Top Chef per fare un esempio. All’inizio ero un po’ scettica, perchè io credo al successo che arriva attraverso il merito, perchè c’è una ricerca, un’inventiva, una passione, una qualità, insomma c’è un grande lavoro dietro.

Però la gente di fatto è arrivata anche grazie al programma e adesso sono contenta. E in realtà mi sono ricreduta su un pregiudizio che avevo sull’audience di questi programmi. Chi li guarda in realtà non è l’americano medio, e il mondo dei foodies si interessa veramente di cucina. L’idea che mi ero fatta io era che, una volta soddisfatta la curiosità iniziale non sarebbero più tornati. Pensavo cioè che si sarebbero affezionati più al programma che alla cucina, e invece non è andata così.

Gli sprechi come li gestisci?

Un po’ sicuramente conta esser del mestiere e un po’ cerchiamo di fare sempre degli speciali per far girare ciò che non si vuole fare andare a male. E siccome abbiamo dei clienti fissi, perchè io la stessa faccia la rivedo anche due volte la settimana, proporre sempre qualcosa di diverso sul menù funziona. Perchè ci sono gli abitudinari che vogliono sempre l’orata, ma ci anche quelli a cui piace il posto, e grazie agli speciali riescono a provare cose sempre diverse.

Per concludere, ho visto che hai una lista vini molto ampia.

Il vino è la mia specialità. Vivo in questa zona da diversi anni e avevo notato che nel quartiere non c’era un wine bar o un posto in cui bere vino buono. Così ho creato una lista di circa 60 vini, quasi tutti italiani e anche un po’ locali, soprattutto californiani, di cui l’80% sono naturali. Il nostro target è molto giovane e il trend è molto sull’organico, quindi i vini naturali sono capiti e apprezzati. Anche gli stessi produttori si stanno muovendo in questo senso. Se prima gli americani prediligevano vini molto importanti e quindi anche un po’ pesanti, adesso il trend si sta spostando più sulla freschezza, la morbidezza, senza l’uso di troppi lieviti, per far risaltare la purezza. Il progetto è ambizioso, ma sta portando a ottimi risultati: anche il Wine and Spirits Magazine ha recentemente parlato di noi.

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