ExportUSA ha intervistato lo chef Philip Guardione, proprietario del gruppo Piccola Cucina, che ci racconta la sua avventura a New York e i segreti del successo dei suoi ristoranti

Il Gruppo Piccola Cucina - una catena di tre ristoranti a New York e uno a Ibiza - è nato dall’idea dello chef catanese Philip Guardione, partito una decina di anni fa a Soho, con un ristorante di pochi metri quadri e un sogno: portare la tradizione siciliana nella Grande Mela, attraverso il gusto dei suoi piatti tipici e il folklore della sua terra


Ci rechiamo a Piccola Cucina Estiatorio (specialità pesce), l’ultimo locale inaugurato da pochi mesi a Thompson Street, nel cuore di Soho, a New York. Philip lascia la cucina e ci accoglie con un sorriso e il fare caloroso tipico del Sud.

Parlaci della tua storia. Come sei arrivato qui a New York?
 

Ho lasciato la Sicilia a soli 19 anni per lavorare in Svizzera, sulle orme di mio padre, che già lavorava lì per una grande catena alberghiera. Prima a Zermatt, poi a Losanna, famosa per gli
alberghi tra i più rinomati in Svizzera. Poi l’opportunità di entrare al Four Season, a Milano, insieme allo Chef Sergio Mei, dove ho lavorato per sei anni. Ancora ricordo come mi presentai: “Vengo anche gratis, basta che imparo”.  E infine a Parigi a “Le Taillevent” e al Carpaccio dell’Hotel “Le Royal Monceau”, sempre interessato più all’esperienza che al guadagno. Guadagnavo meno di quello che spendevo per vivere, ma è col senno di poi che mi rendo conto dell’importanza di queste esperienze, che mi hanno aiutato a rimanere in piedi in America, un paese in cui riuscire senza soldi è veramente molto complicato. Oggi credo impensabile. Quando sono arrivato io, più di dieci anni fa, era più semplice perché il costo del lavoro era molto inferiore.

E così, alla fine, ho colto l’occasione di venire a New York, a cucinare per qualche mese in una villa privata. Sono arrivato nel 2008, in piena crisi economica - mi dicevano - ma per chi come me, arrivava dalla Sicilia ed era abituato alla crisi vera, quella non era certo da considerarsi tale. Qui invece di comprare un Pio Cesare compravano un Primitivo, il cui costo era comunque di 40 euro a bottiglia. In Sicilia avrebbero comprato un Tavernello. Oggi, che i tempi sono cambiati in senso buono, ci si è abituati al benessere, ma anche all’epoca, per me, questa crisi dichiarata non c’era.
 

E così hai aperto il tuo primo ristorante a New York...
 

Sì, quando arrivò l’opportunità di affittare uno spazio a Soho non ho avuto dubbi e ho aperto il primo ristorante tipico siciliano, anche memore del fatto che New York vanta una grandissima comunità siciliana. Non vorrei peccare di presunzione, ma credo di esser stato un pioniere in questo senso. Dieci anni fa c’erano forse solo uno o due ristoranti che proponevano piatti siciliani.

Il primo locale che ho aperto è stato a Prince Street (9 anni fa), con un menù per lo più di tapas, perché non avevo ancora l’uso della cucina. Successivamente ho trovato l’attività su Spring Street (6 anni fa), e ho potuto realizzare il vero progetto che avevo in mente, l’osteria. Ho riproposto la cucina tradizionale, con l’intento di trasmettere la vera anima della Sicilia a tavola, cercando di ricreare anche l’atmosfera che si respira mangiando in una casa siciliana: da noi, la domenica, la pasta si mangiava nella pentola e se rimaneva la mettevamo in frigo, per poi tirarla fuori quando ci tornava l’appetito.

È per questo che a Piccola Cucina serviamo tutto in pentola.

Anche le ricette sono identiche a 
quelle originali di una volta: gli spaghetti ai ricci, la pasta al nero di seppia, alla norma o alle sarde, gli arancini, le polpettine alla siciliana o la sarda beccafico. Non ci siamo inventati nulla di strano, anzi, abbiamo voluto identificarci fin da subito come ristorate siciliano e non italiano. La cosa assurda era che la gente entrava anche solo per quello: la scritta “siciliano” faceva da garanzia.

Per i primi anni abbiamo avuto quasi tutti clienti di origine italiana, soprattutto siciliana. Venivano proprietari di grandi palazzi, in genere di seconda o terza generazione, e ci dicevano: “Sai mio nonno ha fatto questo e quest’altro”. Non potrò mai dimenticare quest’uomo, plurimilionario, che si commosse nel mangiare la pasta con le sarde e gli arancini. “Sono 30 anni che non mangio arancini così”, mi disse.

Quindi i clienti, mangiando piatti tipici, ritrovavano anche le proprie radici a Piccola Cucina.
Ma quanto è importante il rapporto con i clienti in una città così frenetica.
Viene ancora apprezzata l’ospitalità italiana?
 

La Sicilia caratterizza i ristoranti di Piccola Cucina a 360 gradi, e l’accoglienza è un elemento fondamentale della cultura siciliana. I nostri ristoranti sono piccoli, circa 20 posti a sedere, e il cliente ha veramente la sensazione di entrare in una casa siciliana. Viene subito coinvolto da un ambiente caloroso, quasi folkloristico: si ride, si scherza, a volte viene fatta la battuta in siciliano. Poi la musica, e la clientela molto italiana, fanno il resto. Anche se oggi i nostri clienti non sono più solo italiani, ma anche americani, diciamo un 50 e 50.
 

Avete quindi anche clienti regolari che tornano con una certa frequenza?
 

New York è una piazza in cui si lavora di più con il cliente abituale, con cui si riesce ad instaurare un legame: ci sono i clienti fissi del sabato e della domenica e quelli che vengono anche 3/ 4 volte a settimana. Qui c’è un’idea diversa del mangiare rispetto all’Italia: la gente va a mangiare fuori, difficilmente sta a casa a cucinare. Magari stanno un po’ più attenti a spendere, rispetto al periodo precedente al 2008, ma il giro di gente è tale che non ne risenti. Il sabato all’Osteria di Spring Street, ad esempio, facciamo sempre grandi numeri: i tavoli girano 5/6 volte, con una media di 300 coperti.

Un’attività a New York ha lo stesso fatturato di un albergo in Italia, quindi non è più un ristorante, è una fabbrica. Se hai un minimo di 30 dipendenti è un’azienda a tutti gli effetti. Ho sempre fatto il cuoco e ragionato da cuoco, ma arrivando in questa grande metropoli ho dovuto cambiare la mia mentalità e diventare imprenditore. Ora ho uno staff di 40 persone a lavorare. In Italia con 40 persone si è già considerati un’azienda di medie dimensioni.
 

Perché un ristorante deve avere così tanti dipendenti?
 

Qui a New York il metodo di lavoro dei ristoranti è diverso. Solo in cucina abbiamo assunto tre persone in più del necessario, perché dobbiamo sempre calcolare gli imprevisti. Anche solo mettere in conto che qualcuno non si presenti: magari non può più lavorare, magari torna in Italia, oppure non gli hanno confermano il visto. Anche perché in cucina il personale è interamente siciliano, perché quella è l’impronta che vogliamo dare. Posso dire che una delle problematiche maggiori in cui può incorrere un ristoratore è proprio la difficoltà nel reperire del buon personale.

Solitamente un cuoco o un manager, prima di essere assunto da noi, fa un training di almeno un anno, nei locali già aperti. Per vari motivi, ma principalmente perché deve esser pronto a gestire gli imprevisti, che qui a New York sono giornalieri. Anche il semplice fare la spesa può diventare complicato, perché magari un fornitore ti consegna un ordine diverso da quello richiesto e seduta stante devi risolvere il problema. La richiesta qui è talmente alta, che se un fornitore non ha un prodotto, magari non ti chiama e te ne porta un altro, tanto per fare un esempio. Ma ce ne sono tanti altri. A livello economico, per qualsiasi attività a New York, solo di manutenzione, tra rotture varie, si possono spendere tranquillamente 3000 $ al mese: un giorno perde l’acqua, un giorno si blocca il bollitore, un giorno non funzionano i computer. Serve esperienza, non basta sapere cucinare bene. Io non consiglierei di aprire un ristorante a New York solo perché si è bravi. Se la domenica mattina non si presentano i lavapiatti, ad esempio, è un problema e bisogna inventarsi qualcosa. O ti fai un’esperienza di almeno due anni o ti affidi a chi conosce questo mercato.
 

E qual è un segreto per farcela qui a New York?
 

Un segreto per riuscire a New York? Fondamentale sono la location e il prezzo.
Soprattutto in alcune zone di Manhattan. Downtown è una cosa, Uptown è un’altra. La clientela non è la stessa, a parte il fine settimana, a meno che non si mangi eccezionalmente bene o qualcosa di veramente particolare. Se applichi lo stesso servizio a Downtown anche ad Uptown, in due settimane chiudi. A Downtown ti siedi e in due minuti mangi, perché i locali sono più easy, si spende una media di 35/ 50 $. Ad Uptown c’è tutto un altro servizio: c’è la tovaglia, il food runner, il bus boy e l’hostess che ti accompagna, e la media a persona è di 150/200 $. Se non offri questo tipo di servizio, che un americano si aspetta in certe zone di New York, non ti reputa all’altezza del suo standard.
 

Quanto deve fare un’attività per stare in piedi?
 

A New York, un’attività che paga un affitto di 10/12 mila euro al mese, se guadagna meno di 3000 $ al giorno non ce la fa, sta lavorando giusto per pagare le spese. Tenendo in conto anche delle spese extra legate all’imprevisto, di cui parlavamo prima. Qui è tutto così caro perché è tutto in proporzione. Un altro esempio: perché a volte al ristorante anche una bottiglia d’acqua costa tanto? Semplice, perché per affittare un magazzino in America, a New York soprattutto, di 22 metri ad esempio, ci vogliono 700 euro al mese, e non puoi comprare una cassa ogni giorno, devi comprarne 40, e se ti servono spazi più grandi puoi arrivare a pagare 50/60 mila euro l’anno. New York è una grande città, con un milione di opportunità, ma è anche una città con un milione di squali. Devi saperti muovere, devi conoscere le persone giuste. Perché se non sei a conoscenza di come funzionano le cose qui, affondare è un attimo.
 

L’errore più comune che hai visto fare ad altri chef italiani?
 

La mia mentalità aperta mi ha aiutato a sposare il detto “quando sei a Roma, fai quello che fanno i romani”. Molti cuochi fanno l’errore di venire negli Stati Uniti senza adattarsi al sistema americano. L’ambiente della ristorazione è un ambiente molto particolare, perché il cuoco generalmente è un po’ presuntuoso, non si rende conto di essere chiuso nel suo mondo, senza sapere come stanno realmente le cose. Non comprende, ad esempio, che oggi il cliente non è più quello di 20 o 30 anni fa. In America il peggior cliente americano è diventato il migliore enologo italiano. Soprattutto a New York, dove l’americano gode di un’ottima salute economica e si può permettere di provare un po’ di tutto, cambiando vino ogni giorno: dal Pio Cesare, al Sassicaia al Masseto. Vini che raramente si vendono in Italia (come il Masseto ad esempio), qua si vendono come bere un bicchier d’acqua.
 

Un errore da non fare assolutamente con un americano invece.
 

Innanzitutto un americano che apprezza il tuo prodotto, te lo fa proprio sentire. È molto espansivo. Per fare un esempio, qualche anno fa, nel menù avevamo lo stinco di maiale al finocchietto selvatico, un piatto tipico siciliano. Questo signore americano lo ha talmente apprezzato che si è alzato in piedi e ci ha dato 500 $ di mancia.

Una cosa da non fare invece con un americano, è prenderlo in giro. Non deve sentirsi in alcun modo “fregato”. Se si è sinceri e diretti si è sulla strada giusta per vincere, se gli si dice una cosa e non è quella e lui se ne accorge, ci si brucia per sempre. Non si avrà un’altra possibilità.

Qualche regola da rispettare per il servizio c’è. Un americano deve mangiare in 5 minuti, perché non ha la pazienza di aspettare, e per la stessa ragione non deve mancare mai niente sul menù. Se un giorno mancano i ricci e un altro mancano i paccheri, sei già fuori dai giochi. Culturalmente l’americano lavora tanto, ha le risorse economiche e quando si siede a tavola vuole fare il meno possibile, traendone la massima esperienza. Per dirla all’italiana, vuole essere servito e riverito: deve avere tutto quello di cui ha bisogno e che si aspetta di ricevere. Una differenza nel servizio ad esempio, tra quello italiano e quello americano. In Italia quando il cliente si siede, lo si fa rilassare 5 minuti e poi ci si presenta al tavolo, altrimenti si può risultare troppo invadenti. Invece gli americani appena arrivano si aspettano l’acqua: “tap water o sparkling water?”, il pane, il menù. Gli devi dare subito qualcosa, perché lo pretendono. Appena li metti un attimo in un angolo e non li curi, non fanno in tempo ad uscire che scrivono una recensione negativa.
 

E come funziona qui a New York la questione delle recensioni e in generale della comunicazione online per i ristoranti?
 

Una volta ti trovavi male e lo dicevi all’amico, adesso lo sa tutto il mondo. Oggi d’altronde ognuno di noi è il primo a far fede alle recensioni che trova sul web, e da una parte è positivo, perché mette tutti nelle condizioni di lavorare ancora meglio. Qualcosa non è piaciuta? Offriamola o facciamone subito un’altra. Insomma, bisogna inventarsi qualcosa. Questo, forse, è un altro dei nostri segreti, accontentare il cliente. Facciamo quello che si faceva 30 anni fa: lo coccoliamo.

Ad esempio grazie alle recensioni sui social ci siamo resi conto che molto spesso il cliente americano non apprezza il sapore forte del pesce. E di conseguenza ci siamo adattati al mercato. Qui a Piccola Cucina Estiatorio sul menù abbiamo un brodo, il fumetto di pesce, che in Italia deve avere un sapore molto forte per essere apprezzato, altrimenti si pensa subito al pesce congelato. Invece qui lo facciamo molto più leggero per incontrare il gusto dell’americano.

D’altro canto molto spesso vediamo i clienti di fronte al locale che leggono le recensioni prima di entrare. Da una parte ti aiuta, ma dall’altra può anche penalizzarti. Perché se sono reali è un modo per migliorarsi, ma se c’è una recensione negativa un po’ ti pesa, perché sai quanto gli americani diano credito alle recensioni. Qua infatti l’aspetto del marketing conta tantissimo per un’azienda. La comunicazione è fondamentale in America: sito, social media, pr, recensioni della stampa. A volte viene il giornalista o il food-blogger di turno ti e avvisa prima, altre volte nemmeno lo sai e lo scopri dalla recensione che hanno scritto.
 

E i prodotti, riesci a procurarti tutto qui in America?
 

Per la tipologia delle nostre ricette, la materia prima dev’essere ottima. All’inizio era davvero complicato trovare i prodotti giusti, oggi la situazione è molto migliorata: si trova di tutto anche a prezzi accessibili. Quando abbiamo iniziato noi, invece, i prezzi erano ancora alti e non riuscivamo ad ottenere un margine di guadagno. Perciò occorreva trovare un altro canale, e così abbiamo aperto un canale diretto con la Sicilia. Ora importiamo anche pesce tipico, come i gamberi rossi di Mazara (che vengono abbattuti per evitare che si ossidino) o la pasta, ad esempio le busiate trapanesi. Il concept di quest’ultimo locale, infatti, è quello di un Fish Market, e stiamo affinando il nostro menù per dare un’esclusiva di alcuni prodotti, che non si trovano a New York.
 

La tua più grande soddisfazione da quando sei qui?
 

Una delle più grandi soddisfazioni è sicuramente il fatto che il cliente apprezza quello che facciamo. Noi qui lavoriamo tantissime ore, ma questi sacrifici in America vengono ampiamente ripagarti. A livello d’immagine, qualsiasi cosa fai a New York di successo, ti apre le strade ovunque, perché ti dà visibilità in tutto il mondo. Di riflesso può funzionare Ibiza, perché c’è New York. Come cantava Frank Sinatra “If I can make it there, I can make it anywhere”. Se ce la fai qui, ce la fai ovunque!
 

Oltre ai vari vip di turno, è venuto anche il sindaco di New York, De Blasio, di origini napoletane. Immagino sia stata una bella sorpresa.
 

Non è stata una sorpresa perché non è venuto per caso. È anche grazie agli italiani che oggi c’è Piccola Cucina. Perché gli italiani ci hanno sostenuto tanto. Un giornalista che lavorava in Rai una volta mi ha detto: “Philip di voi parlano benissimo, ma anche perché vi vedono ogni giorno lavorare”.  Sicuramente è stata una grande soddisfazione quando De Blasio ha detto: “Io qua ho mangiato la più buona parmigiana d’America”. E quando abbiamo provato ad offrirgliela lui ha risposto: “No, il lavoro va pagato”.

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